venerdì 2 novembre 2012

STUPIDITA'



STUPIDITA’                                    
 Autore Balestra Adriano (personalmente esperto)

“Conosco due cose infinite: l’universo e la stupidità umana. Sulla prima ho ancora dei dubbi.”  (Albert Einstein)

Fino a poco fa’ dicevano che l’ignoranza è guaribile ma la stupidità è inguaribile.
Non sono d’accordo su questo, perché l’ignoranza è causa della scarsità di nozioni memorizzate nel cervello, per cui:
 se ho uno stimolo verbale, visivo o di qualsiasi tipo, e non trovo alcun riscontro nel cervello per poter reagire, a fatti o a parole in modo “intelligente”, reagisco in modo "stupido" o, più realisticamente, non reagisco affatto.

L’IGNORANZA è la MADRE della STUPIDITA’.
Originariamente il termine "stupidità" ha due accezioni distinte: una vede una condizione d'incapacità o insensibilità, indotta da meraviglia, sorpresa; l'altra una condizione duratura, come dire un handicap. Generalmente "stupidità" indica "incapacità" e "carenza", sul piano materiale e su quello morale. Carlo Maria Cipolla definisce lo stupido come "una persona che causa un danno ad un'altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita".

Il termine deriva (sec. XIV) dal verbo latino stùpeo, ossia "son stordito, resto attonito". Lo "stupido" è infatti colui che non sa dominare il circostante, e le situazioni, con tutti i loro fenomeni: ne resta attonito, spiazzato. L'inetto descritto da Italo Svevo è un tipico esempio di "stupido": di fronte al bivio non saprà mai che direzione imboccare.

Nel latino il suffisso -idus, (da cui stupidus, "stupido") è proprio di aggettivi verbali col senso di qualità durevole. Da qui la prima controversia: la stupidità è uno stato costante, è un handicap?

Letteralmente stupidità ("stupiditas") indica torpore e intontimento. Oggi ne resta una traccia vaga: ad esempio la differenza fra "instupidito" (appunto intontito, infiacchito, mentalmente stanco) e "stupido". Gli antichi consideravano la stupidità una passione: subire gli avvenimenti senza avere potere su di essi. Così lo stupido era immobile di fronte alle situazioni. Il discorso è molto diverso per una cosa come i vizi, che sono misfatti, azioni moralmente riprovevoli: sottintendono necessariamente un'attività, da parte del "vizioso". Al contrario si può dire che l'accezione storica vede la stupidità come qualità. In senso caratterizzante, e in questo passiva.
Generalmente lo stupido è colui che ripete inconsciamente i propri errori, è incapace di correggerli, regolamentarsi. Non è in grado di scegliere che strada imboccare. "Molti fattori del comportamento umano, intrinsecamente diversi dalla stupidità, possono contribuirvi". Non è il caso di una cosa come la paura, sentimento tipico nell'individuo "stupido"
Certo compiere una "stupidaggine" è ben diverso dall'essere un individuo stupido. Imboccare la direzione "sbagliata" non fa l'uomo stupido. È scegliere di tentare, e non è stupido. È giusto ricordare questa differenza, ma si torna sempre allo stesso bivio:
compiere azioni stupide fa l'uomo stupido
l'uomo stupido può compiere solo azioni stupide.
La risposta al quesito è nell'evoluzione sociale della specie, nella civiltà e nei suoi linguaggi

Linguaggi, società, storia 
È necessario intendere le parole "stupido" e "stupidità" innanzitutto come convenzioni. I significati che gli attribuiamo sono patrimonio culturale degli uomini, e disegnano a ognuno di noi un'immagine comune. Immagine contingente alla nostra società.
Il linguaggio (specchio dell'evoluzione umana) può darci una chiave di lettura valida, ma per comprendere a fondo bisogna inserire lo "stupido" in un contesto sociale : metterlo in relazione con altri individui.
Giancarlo Livraghi (ricercatore, autore de "Il potere della stupidità") ci fa notare come si tenda "ad etichettare come stupidi tutti i comportamenti che non rientrano nei nostri schemi mentali ordinari".
Vero è che il significato della parola "stupidità" ha subito innumerevoli deformazioni, modificate da altrettante accezioni (la maggior parte delle quali in senso dispregiativo). Ha concentrato in sé moltissime caratteristiche degli esseri umani, ed è (più di altre parole) simbolo di mancanza, di "deficienza". È sinonimo di ignoranza e di superstizione, di un certo limite intellettuale. Lo stupido è colui che non utilizza, o non può utilizzare al meglio la propria intelligenza. È implicitamente, seppure in diverse misure, un portatore di handicap. Nella lingua corrente la parola ha via via perso il legame col concetto di stupore, accostandosi sempre più a "cretino": dal ben altro colore. Non a caso ormai, "stupido" è omologato a parole (anche gergali) come "deficiente", "idiota" o "tonto". Non più ad esempio a "sciocco" o "ingenuo", dal tono più premuroso, mai necessariamente offensive.
Nell'antichità, quando il termine "stupido" era ancora profondamente legato al concetto di stupore, esso non aveva connotati negativi. Per comprendere meglio poniamo questo paradosso.
Due uomini del passato: uno dei due è immobilizzato da un bivio, e se ne sta ritto al centro di esso. L'altro uomo, che lo guarda mentre è in difficoltà, giudicando stupida la sua incapacità di scegliere quale direzione imboccare, se ne stupisce. Egli stesso di fronte ad un bivio, non sentendosi a ragione uno "stupido", imboccherebbe una strada o l'altra. Quest'uomo è stupito dal fatto che ci si possa trovare in difficoltà di fronte ad un bivio; lo ritiene "stupido". La stupidità degli altri infatti ci stupisce, non ci rappresenta, o così ci pare. Ma stupendoci di questa ingenuità, della "stupidità" dell'uomo immobile sul bivio, non siamo noi stessi degli stupidi?
Notiamo qui come il significato della stupidità sia incredibilmente dinamico. Non dovrebbe (in linea teorica) assumere connotati negativi: ne deduciamo allora come non abbia più senso oggi intendere la "stupidità" come conseguenza di meraviglia. Ha perso la sua dinamicità. Per comprendere i significati odierni dobbiamo addentrarci ancora.

La contraddizione, lo scontro di due concetti ugualmente validi, è forse alla base della stupidità. Come già detto è perfettamente rappresentata dall'immagine del bivio, d'accordo: due direzioni vicendevolmente irrinunciabili, e per questo eternamente critiche (metteranno e manterranno l'individuo in questione in uno stato di stupidità, verosimilmente in eterno.
Se ne può dedurre che l'uomo stupido è per propria stessa natura privo di libertà.
È privo della capacità di scegliere. È privo della capacità di discernere. Senza possibilità di distinguere non accumula esperienza. Di fronte ai fenomeni del mondo non sa agire, né soprattutto può interagire. Si nega lui stesso la coscienza? C'è da chiedersi se non siano anche "forze maggiori" a negargliela. Nella letteratura di Italo Svevo, e dei suoi contemporanei, "l'inetto" era portato a scegliere autonomamente la "stupidità", per fuggire al male del mondo; vi si rinchiudeva per sfuggire alla società circostante. O ancora: i grandi Leader del passato, alcuni di loro, hanno indotto intere masse a compiere azioni che si possono considerare a posteriori "stupide". Un esempio (su cui riflettere) è la morte di tutta la gioventù di secoli e secoli, mandata al suicidio fanatico della guerra, sul campo di battaglia. Uomini e donne ai quali, dalla veemenza degli oratori, è stata annichilitala la capacità di scegliere.

Ma gli stessi Leader hanno commesso grandi errori, considerati a posteriori "stupidi". Così un gesto di intelligenza e di esperienza si rivela ai fatti, solo più tardi, una stupidaggine. Altrettanto è vero che ciò che un individuo trova stupido non lo è universalmente. Riflettendo sulla nostra cultura (cultura dei consumi spiccatamente occidentale, ora esportata anche in oriente) si notano alcune cose interessanti.

Il consumo è generalmente una delle fonti di reddito fondamentali per uno stato. È uno dei più grandi e sviluppati ingranaggi dell'economia moderna: innesta una nuova morale, una morale propria (che viene chiamata "postmoderna") ed oggi come mai è un fenomeno di portata macroscopica, tanto da influire (con le arti creative del marketing) sulla capacità di scegliere degli individui. Nella società contemporanea è necessario scegliere quale prodotto acquistare, lavorare per comprarlo e contribuire al normale funzionamento della macchina. Uno dei valori fondamentali della nuova impostazione morale degli uomini è la necessità di "consumare", per non rallentare l'economia. Come già detto è "necessario".
Oggi dunque non scegliere (e implicitamente rallentare questa "macchina") è considerato "stupido".
Parlando dunque della stupidità come giudizio contingente alla società, tanti dubbi sono chiariti. Contrapponendosi a questa "morale", nella quale è stupido evitare di scegliere (e acquistare i prodotti), si viene meno al presunto “dovere dell’individuo di contribuire allo sviluppo dell’economia”.
Stupido in questo contesto e’ colui che evita di scegliere. (per approfondire leggi Vita liquida di Zygmunt Bauman)
Al contrario però, agli occhi di colui che sceglie deliberatamente di "non scegliere", lo stupido è proprio "chi consuma". È esattamente "colui che sceglie", lo stupido. La situazione è completamente ribaltata. È qui che ritorna la dinamicità della parola, per il semplice fatto che si fonda su dei valori, come già detto. È "stupido" colui che rifiuta o contraddice i nostri schemi ordinari. In passato la stupidità non è sempre consistita nel "non scegliere". Molti uomini non avevano la capacità di scegliere, nel caso per esempio di un contadino i propri interessi; né addirittura la propria vita. Stupido era opporsi allo stato di cose: nel più dei casi si finiva col farsi uccidere.
Senza la possibilità di scegliere è impossibile essere considerati individui stupidi.
La stupidità non andrebbe assolutamente intesa come contrario dell'intelligenza, quando si risolve in un gesto, in un'azione stupida. Tante cose lo dimostrano. Atti avventati, le grandi sviste della storia, errori apparentemente "stupidi": hanno dato agli uomini la coscienza che li contraddistingue.
Nella religione il celebre gesto di Adamo: afferrò la mela contro la volontà di Dio e soprattutto contro i propri interessi. Il gesto "stupido" per eccellenza.
La stupidità come morbo.
A posteriori dunque possiamo dire che la "stupidità" sa essere una via di progresso.
Ed è anche un enorme strumento di potere, soprattutto in senso di controllo. Per esempio quando viene sfruttata per influenzare l'opinione pubblica (basti pensare a un fenomeno come la demagogia). Assume valori molto diversi, a seconda di dove lo s'inserisca: o una certa "condotta", morale e fisica; o una semplice apparente carenza d'intelligenza da parte d'un individuo; o ancora un probabile "handicap", nel senso più esclusivo possibile. Ma è una malattia?

Uno studio dell'università inglese di Exeter ha identificato un'area nel cervello (nella regione temporale della corteccia) che si attiva per non ripetere un errore già commesso. Se alla base della stupidità ci fosse un'anomalia di questa regione?
Gli studi possono chiarire molti dubbi al riguardo. Ma potranno crearne di nuovi. Una scoperta del genere, se confermata, ribalta la situazione. La stupidità è innegabilmente avvalorata come handicap.
Che "la stupidità" trovi la sua giusta definizione, nei limiti in cui possa davvero esisterne una, è tutto da stabilire. Indubbiamente è uno dei temi prediletti di letterati e filosofi. Ed è considerata in più casi il male maggiore, nel panorama della qualità umane. Basti pensare a tutto ciò che ne ha detto Oscar Wilde.
Stupidità e religione cristiana
Nel Vangelo di Marco la stupidità (o "stoltezza") è accomunata ad altre forme di peccato. Il termine ricorre anche nell'Antico Testamento: nel libro dell'Ecclesiaste è scritto "Il numero degli stolti è infinito".
L'argomento è negletto per la Chiesa cattolica nel complesso. Pare che l'ultima apparizione nei documenti ecclesiastici ufficiali del termine "stolti" inteso come peccatori risalga alla bolla contro Lutero di Papa Leone X nel 1520 intitolata "Exsurge Domine!".
Stupidità e diritto.
Nel Codice Penale italiano l'articolo 61 prevede l'elevazione della pena fino a un terzo se esiste l'aggravante "per futili motivi". Qualcosa di simile esiste nella "Common Law" dei paesi anglosassoni. Entrambi hanno radici nella antica cultura giuridica romana.
Il tema della stupidità nella letteratura.
Nel corso dei secoli (da Euripide a Immanuel Kant a Carlo Maria Cipolla, da sempre insomma) il discorso sulla stupidità ha aperto al territorio di innumerevoli riflessioni, e interpretazioni. Il tema del "divertissement" per esempio. L'evasione "senza senso" proposta da Pascal: la stupidità come difesa contro l'assillo dei grandi problemi sul senso della vita. Lo stesso Umberto Eco, nel suo "Il pendolo di Foucault", inserisce spesso una riflessione sulla stupidità. Ancora il tema della chiacchiera-curiosità-equivoco in Martin Heidegger. O Giovenale, antica Roma, poeta satirico e professore di retorica. Egli intitolò la propria quarta satira: "Uso stupido del potere" (vedi le satire di Giovenale)
Anche nella pedagogia si sviluppa il tema della stupidità, ed è molto articolato. Per fare un esempio: Comenius (Johan Amos Komenskẏ). In un proprio brano, l'educatore e pedagogista ceco si fa promotore dei meno dotati, considerandoli giustamente svantaggiati (e più bisognosi quindi di sostegno, rispetto ad altri).
È interessante il lavoro di Carlo Mario Cipolla, vero e proprio studio sulle leggi della stupidità.
La morale
La stupidità dell' uomo non é tanto per le azioni quanto per come riflette. Gli esseri umani pensano solo al loro mondo e a come cercare di migliorarlo, evidenziando egoismo, intolleranza, incomprensione e altri difetti che ne fanno una razza dai pensieri troppo complessi, che portano alla stupidità di tutti. Tutti vogliono aver ragione, perciò tutti diventano intolleranti; tutti hanno paura dei giudizi, perciò tutti cercano modelli già visti che l'immaginario collettivo accetta; tutti vivono nel loro piccolo mondo, e non provano a guardarsi da fuori per vedere i propri difetti; tutti ragionano secondo quel che é giusto per la morale, e non per quello che sarebbe veramente giusto. A causa della coscienza (nella psicoanalisi é il Super-io) non possono essere veramente liberi. A causa della religione non possono rendersi conto di quanto l'Universo offra. A causa dell' uomo, l'uomo si distruggerà.

FIGLI D'ARTE O MOWGLI


FIGLI D'ARTE

 

 

Figli d'arte o sindrome di Mowgli?

 

(Adriano Balestra 2012)

 

L'ereditarietà genetica è la trasmissione, da una generazione alle successive, dei caratteri originati dall'assetto genetico. L'avvenire di una specie è legato a due condizioni: il patrimonio ereditario, cioè l'insieme di caratteri e di potenzialità che ogni individuo riceve dai genitori al momento della nascita, e le condizioni ambientali in cui si sviluppa e che nel caso della specie umana assumono anche il carattere di processo educativo. Noi siamo quello che l'ambiente in cui abbiamo vissuto ci ha insegnato.

Non esiste trasmissione genetica di conoscenze, capacità artistiche, musicali, pittoriche, ecc.

I cosiddetti "figli d'arte" non sono altro che individui che dalla nascita convivono con un genitore che dalla mattina alla sera suona, compone musica, dipinge, scolpisce, ecc.

Se prendiamo un neonato, figlio di un genio, e lo affidiamo ad una famiglia di selvaggi del Sudamerica o dell'Africa o dell'Australia, lui sicuramente non diventerà un compositore o un pittore, ma resterà un selvaggio.

L'unica cosa che un genitore genio può trasmettere ereditariamente è una certa elasticità dei neuroni che farà si che il figlio apprenda più facilmente quello che l'ambiente gli insegna.

Ma solo quello che l'ambiente in cui vive gli insegna.

Ci sono oggi centinaia di bambini tolti dal loro ambiente famigliare e inseriti in un ambiente diverso, spesso anche animale.

Il risultato è quello che viene chiamato la "sindrome di Mowgli".

 

Esiste tutta una letteratura documentata su questi che vengono chiamati "ragazzi selvaggi" in inglese "feral childs".

In INTERNET si possono trovare documenti e filmati veramente impressionanti.

Di seguito riporto dei documenti su tale argomento.

 

DOCUMENTI:

 

"Sindrome di Mowgli": il bambino che cinguetta

marzo 2008

Non è la prima volta che si sente parlare di un bambino che in seguito ad alcune circostanze vive a stretto contatto con gli animali sul modello del “Libro della Giungla”, il romanzo di Rudyard Kipling. Dopo il ritrovamento dell'anno scorso della ragazzina cambogiana che viveva nella giungla a stretto contatto con gli animali, e che in seguito a questo tipo di vita non sapeva più comunicare nella propria lingua, è di qualche giorno fa la notizia di un altro ritrovamento.

Ma stavolta non si tratta di un abbandono in una foresta, bensì di un caso “abbandono” perpetrato fra le mura domestiche. In Russia, a Kirovskiy (Volgograd), vive un bambino di sette anni con la madre di 31 anni. Fin qui tutto tranquillo, se non fosse che il bambino non parla come ci si aspetterebbe da un qualsiasi suo coetaneo, bensì cinguetta. Ma non solo: infatti il bambino oltre a esprimersi in cinguettii muove anche le braccia mimando lo sbattere delle ali. 

Del caso si è occupata un'assistente sociale, che in un'intervista al quotidiano Pravda ha dichiarato che la madre gli dava solo da mangiare, ma non gli parlava. Nella casa in cui abitavano c'erano diverse gabbie piene di uccellini, per cui di conseguenza il bambino ha imparato ad esprimersi nell'unica “lingua” che sentiva “parlare” in casa, ovvero il cinguettio. Il bimbo ora si trova in un istituto in attesa di essere trasferito in un centro di cura. Alla madre ovviamente è stata tolta la tutela del figlio.
 
In Siberia una bambina di 5 anni cresciuta da cani e gatti
maggio 2009
 
La polizia russa ha preso in cura una bambina di 5 anni, rinchiusa in un appartamento in compagnia di cani e gatti per tutta la sua vita.
La bambina, che ha vissuto a Chita in Siberia orientale, non sapeva parlare russo e ha agito comportandosi come un cane quando la polizia l’ha trovata. “Per cinque anni, la bambina è stata “allevata” da molti cani e gatti e non ha mai varcato la porta di casa” lo ha dichiarato l'ufficio stampa della polizia. “La bambina era vestita in abiti sporchi, possedeva chiari attributi di un animale ed ha assaltato gli agenti appena li ha visti. L’appartamento era privo di riscaldamento, d’acqua e fognature”.
Un portavoce della polizia ha detto che “la bambina, conosciuta come Natasha, è stata monitorata da psicologi in un orfanotrofio. Sua madre è stata interrogata, e il padre della bambina non è stato ancora trovato. La bambina dà l’impressione di avere soltanto 2 anni, si rifiuta di mangiare con un cucchiaio e ha assunto molti dei gesti degli animali con i quali ha vissuto. Quando gli assistenti lasciano la stanza, la bimba salta alla porta e abbaia.

 Ragazzi selvaggi e antropoidi parlanti
Tratto da Diogene N° 17

Bambini allevati dagli animali e animali allevati dagli uomini: qual è la differenza? Possiamo abbandonare l'arroganza con cui ci attribuiamo la supremazia su tutti i viventi per fare invece una filosofia del moscerino e del bambino?

 

  
 
 

I ragazzi selvaggi sono quei bambini che riemergono, in genere, dal fondo della giungla (più recentemente anche da quella urbana) dove sono sopravvissuti completamente isolati grazie alle loro proprie forze o perché accuditi da animali. Il lungo elenco dei ragazzi selvaggi, dai primi “bambini-lupo” del 1300 ai “bambini-cane” della fine del secolo scorso, è stato ripreso da Anna Ludovico in "Anima e Corpo" e, ancora una volta, essi vengono indagati come esperimento naturale per “dimostrare che l’apprendimento di una lingua e di un comportamento emotivo adeguato da parte di un bambino siano il prodotto di una lunga serie di operazioni mentali che, a loro volta, sono rese possibili unicamente da una socializzazione sviluppata in ambiente tipicamente umano”, ovvero, per neutralizzare, tramite la negazione implicita di “una lingua e di un comportamento emotivo” animali, l’impatto dirompente che i ragazzi selvaggi eserciterebbero sull’antitesi uomo/animale.
Un esempio illuminante al proposito è fornito dal confronto della sorte dei “ragazzi selvaggi” sopravvissuti in isolamento rispetto a quella di coloro che sono stati allevati da animali.
Se a prima vista saremmo, infatti, propensi a pensare che siano questi ultimi ad avere maggiori speranze di sopravvivenza, avendo ricevuto cure parentali e partecipato alla vita sociale di una comunità, non tardiamo a venire informati che, invece, vale esattamente l’opposto: “I fanciulli cresciuti con gli animali hanno modellato su questi le loro risposte ambientali”.
Di qui la maggiore difficoltà incontrata da questi ragazzi nel trasformare la struttura del modello sociobiologico che si è dimostrata indispensabile alla loro sopravvivenza. Ne consegue che, dopo il loro ritrovamento, i bambini allevati dagli animali selvatici hanno vita breve, al contrario degli altri.

Vita breve
“Vita breve” significa non tanto una ridotta aspettativa di vita, quanto piuttosto una minore possibilità di ridiventare umani, riacquistando il linguaggio (il nostro, ovviamente), in una parola di venire “rieducati” all’umano, che poi è stato da sempre lo scopo principale di tutti i filantropi, medici o meno, che, a partire da Itard, si sono presi cura dei ragazzi selvaggi dopo il loro ritrovamento.
Non vi è dubbio infatti che per costoro i ragazzi selvaggi sono “regrediti” al livello animale, anzi sono animali tout court. E che questo sia vero è dimostrato nei fatti dalle modalità con le quali i ragazzi selvaggi vengono persi e poi ritrovati.
Generalmente, questi individui perdono i contatti con la comunità umana nel corso di guerre e rastrellamenti, cioè in tutta una serie di eventi che rappresentano le manifestazioni più eclatanti della società gerarchica e repressiva, dove il nemico può essere trattato alla stregua degli animali e dove chi è collocato sui gradini più bassi della scala degli esseri viventi può essere lasciato indietro come un animale.
E quando vengono ritrovati, vengono letteralmente catturati, cioè ripresi con metodi in tutto e per tutto assimilabili a quelli delle pratiche venatorie.
E, se non fosse tragico, dovrebbe suscitare ilarità il fatto che chi ha catturato questi ragazzi selvaggi provi stupore per il fatto che essi non intendono affatto farsi riprendere e di conseguenza mettono in atto meccanismi di fuga, che vengono interpretati non come un segno della loro riuscita integrazione nella società “ospite”, ma come indice del livello di “disumanità” raggiunta.
Se fossimo in grado di avvicinare i ragazzi selvaggi con garbo, ponendo loro le domande giuste e senza negarne la capacità di rispondere, potremmo rendere visibile l’opera della “macchina antropologica”, primo passo per disinnescarne l’hybris discriminatoria: la “macchina antropologica”, infatti, funziona al massimo grado solo se lavora sullo sfondo che, in quanto tale, è invisibile proprio perché costantemente davanti ai nostri occhi.

Adottati dall’animale

Se avvicinati così, i ragazzi selvaggi allevati dagli animali risponderebbero mostrandoci con quanto successo abbiano assunto caratteristiche mentali e atteggiamenti corporei simili, se non identici, a quelli della specie d’adozione. In effetti appare evidente, riesaminando criticamente la letteratura sui ragazzi selvaggi, che questi, al momento del ritrovamento, sono ben inseriti nella comunità animale da cui sono stati adottati.
Questo significa che non solo hanno appreso dagli animali i metodi della sopravvivenza materiale, ma anche le regole sociali di quella comunità, una cultura e un “galateo”, in una parola sono stati istruiti ed educati (da cui nasce poi il bisogno di rieducarli).
Esiste, cioè, una tale continuità nel mondo animale che la barriera di specie non è in grado di impedire lo sviluppo di processi di apprendimento socioculturale.
Continuità mostrata chiaramente dalla scoperta dei cosiddetti neuroni specchio, neuroni che hanno la peculiarità di attivarsi sia quando si compie un’azione, sia quando si osserva un’azione compiuta da un altro.
Tali neuroni, comuni all’uomo e (almeno) alle scimmie, sembrano essere coinvolti nella comprensione dell’azione e dell’intenzione di questa, nell’imitazione, e, infine, nello sviluppo del linguaggio e dell’empatia.
I neuroni specchio permetterebbero cioè di creare una copia motoria della percezione visiva dell’azione altrui, permettendo così a soggetti interagenti di costruire una rappresentazione comune delle azioni proprie e di quelle degli altri, rappresentazione che è alla base dell’interazione sociale.
Dietro al linguaggio e all’apprendimento, che non ci separano dagli altri animali ma che ce li rendono ancora più prossimi, si nasconde quindi una “simulazione incarnata”, che rende linguaggio e apprendimento aspetti meno spirituali di quanto abbiamo sempre creduto, qualcosa di più gestuale e di più corporeo. Il che, da un lato, potrebbe stare alla base dell’apprendimento socioculturale e, dall’altro, minare definitivamente il ruolo del linguaggio come discrimine tra il mondo umano e quello animale.

Animali quasi umani
Se l’uomo, una volta inserito in una qualunque comunità animale (di lupi, gazzelle, orsi, cani), è in grado di apprenderne appieno il “galateo”, lo stesso accade (e anche questo è così evidente che non dovrebbe necessitare di essere ribadito se non fosse stato relegato a priori nella dimensione dello sfondo) per quegli animali che si sono trovati a essere inseriti in un contesto fortemente antropizzato.
Si pensi qui a quanto accaduto ai corpi e alle menti degli animali domestici, siano essi pet o “animali da reddito”, a partire da cani e gatti che abitano le nostre case, passando per le mucche e i maiali rinchiusi nei nostri allevamenti, per arrivare ai topi e ai ratti manipolati fin nel profondo del subcellulare e generati appositamente per la sperimentazione scientifica.
Questi animali sono quegli stessi “ibridi” che il nostro antropocentrismo vorrebbe negare ma che esso stesso genera in una mossa che è apparentemente paradossale, ma che in realtà costituisce il cuore di un’operazione fintamente dialettica, di un’operazione, cioè, che crea l’ibrido per poterlo negare grazie al suo sfruttamento e per il suo sfruttamento, per utilizzarlo come mezzo per quell’unico fine che è l’uomo. Questi animali “quasi umani” che per un istante (quello che precede la loro utilizzazione, il loro consumo) occupano la zona grigia di confine tra i due mondi, quello della natura e quello della cultura (o del corpo e dell’anima, o dell’istinto e della ragione, ecc.), precedono ontologicamente e temporalmente gli odierni esperimenti di ingegneria genetica, ne costituiscono
lo sfondo su cui questa ha potuto fondarsi. Se allora prendiamo atto della bi-direzionalità dell’apprendimento socioculturale transpecifico, dobbiamo anche prendere atto che la definizione dell’umano come “animale carente”/proposta da Arnold Gehlen è applicabile all’intero regno animale (o almeno a gran parte di questo).
L’animale che è sempre stato costruito dalla nostra tradizione a partire da una mancanza di linguaggio, di razionalità, dell’anima immortale, della capacità di usare strumenti,  è allora, dialetticamente e come l’uomo, “mancanza in positivo”.

Plasmabilità della specie
Un esempio di quella mancanza animale che rende possibile la plasticità culturale dei comportamenti è offerto dall’analisi delle scelte alimentari dei ragazzi selvaggi: mentre quelli allevati dagli animali assumono in genere la dieta della specie di accoglienza, i ragazzi selvaggi cresciuti in isolamento, al momento del ritrovamento, sono per la maggior parte vegetariani.
Anche questa osservazione non ha nulla di sorprendente una volta accettata l’evidenza scientifica che la nostra specie è “naturalmente” equipaggiata ad essere vegetariana. “Naturalmente” vegetariana non significa necessariamente vegetariana, visto che la dieta è fenomeno eminentemente culturale e quindi influenzabile socialmente.
Ecco allora che i ragazzi selvaggi possono insegnarci qualcosa su quello che noi stessi siamo: come essi vengono educati a una dieta carnea da animali non vegetariani, così lo siamo noi dalla potente industria agrochimica.
In altre parole, la vulnerabilità della mancanza tipica di tutto (o quasi) il mondo animale, mancanza che lo rende tale, cioè plasticamente adattabile al variare del suo mondo, può essere trasformata dall’industria culturale mass-mediatica (della quale quelle della carne e del farmaco sono solo una parte) in meccanismo produttivo, in lavoro tramite rieducazione.
Rieducazione all’invulnerabilità, cioè all’assenza del corpo animale, che trasforma l’uomo da “animale carente” in animale deprivato e, quindi, nelle parole profetiche di Rousseau (Sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini, 1755), in “animale depravato”, cioè profondamente e irrimediabilmente asociale, solipsistico, egoista e, direbbe Günther Anders, consumatore (ovvero “deprivato del sentimento di essere deprivato”).
E non dimentichiamoci che il modello di consumo “nell’epoca della terza rivoluzione industriale” è proprio quello del mangiare, cioè di quel consumare che rende “il più piccolo possibile l’intervallo che si estende tra la produzione e la liquidazione del prodotto”.

Esperimenti
Si è parlato sin qui di chi arriva ad abitare lo spazio proibito tra l’uomo e l’animale partendo dal lato umano, ma considerazioni analoghe valgono anche per quegli individui che giungono in questa “terra di nessuno” dal lato animale, cioè di tutti quegli animali che sono stati costretti a imparare il nostro linguaggio.
Le scimmie antropomorfe “parlanti”, di fatto, altro non sono che l’immagine speculare dei ragazzi selvaggi: anch’esse sono prelevate violentemente dal loro ambiente naturale, dai loro rapporti affettivi e sociali per essere rieducate nell’ambiente asettico di un laboratorio con lo scopo (neanche tanto celato) di sottolineare che, nonostante siano in grado di apprendere il nostro linguaggio, sono comunque a noi incommensurabili perché solo pochi individui hanno mostrato capacità di apprendimento ritenute adeguate, o perché manca loro una qualche oscura e complessa abilità linguistica o, infine, perché individui privi di autocoscienza. E l’elenco potrebbe continuare all’infinito.

La macchina antropologica
Detto altrimenti, la “macchina antropologica” era già all’opera prima che questi esperimenti venissero pensati o, meglio, è il funzionamento invisibile della “macchina antropologica” che li ha resi possibili. Nelle parole di Anna Ludovico: “La consapevolezza scientifica sulla natura del pensiero può concludersi nella definizione della coscienza come pensiero verbalizzato e pertanto specificamente umano, anche quando venga espresso da un antropoide”.
Paradossalmente, quindi, tutti gli esperimenti linguistici sui primati non umani non hanno portato a ridurre la distanza tra “loro” e “noi”, ma sono stati disegnati con lo scopo specifico di approfondirla, se non altro per il fatto che questi esperimenti, pur meno cruenti di altri, comportano comunque una violenza inaudita sugli individui che sono costretti a parteciparvi.
Violenza inaudita di cui si fa testimone la scimpanzè Washoe, che separata dal suo mondo e rieducata al linguaggio umano dai coniugi Gardner e da Roger Fouts, nel momento in cui incontra per la prima volta dei suoi consimili (in una gabbia), li definisce “insetto nero”, mostrando così di aver perfettamente appreso l’arroganza umana, il “fondo inalienabile dell’antropologia occidentale”, il cui meccanismo principale risiede nella svalutazione dell’Altro in quanto animale.

I limiti dell’antropologia
Ragazzi selvaggi e antropoidi parlanti sono individui violentati dal processo “rieducativo”, che li trasforma in fenomeni da baraccone o, che è lo stesso, in oggetti per (glorificare) il nostro pensiero. In entrambi i casi vengono negati e disconosciuti e la loro carica eversiva depotenziata per mantenere aperto lo iato che consente di considerare “sacra” la sola vita umana a discapito di chi, umano e non, viene assegnato alla categoria dei lebensunwert [viventi senza valore].
Ripensare i ragazzi selvaggi alla luce di queste considerazioni può allora forse rivelarsi un utile esercizio per iniziare a pensare con serietà a “una filosofia del moscerino e del bambino”, a trasformare i limiti dell’antropologia filosofica in confini permeabili e quindi a renderla un discorso intorno all’uomo e non un ennesimo discorso dell’uomo.

MIRACOLO


MIRACOLO

 

LA DANZA DELLA PIOGGIA

Inaugurazione dell’autodromo di Kuala Lampur in Malesia.

Lo stregone fa la danza affinché non piova.

La stampa occidentale riporta la notizia con ilarità.

 

Sicilia, due settimane dopo, la siccità colpisce l’isola.

I vescovi invitano i fedeli a pregare per la pioggia.

Nessuno ride!

 

SALVO PER MIRACOLO

Aereo precipita: trecento morti, un solo sopravissuto.

Miracolo, salvo per miracolo.

Se io fossi Dio mi offenderei.

Dio onnipotente, bontà infinita, è là presente e ne salva solo uno.

Sarebbe forse più logico dire che si è trattato di fortuna!

 

GUARIGIONI

Un'altro tipo di miracolo è quello delle guarigioni.

Tutti sanno cosa sono le malattie psicosomatiche. Sono malattie causate dall'autosuggestione.

Pochi sanno cosa sono le guarigioni psicosomatiche. I più "furbi" pensano che siano le guarigioni di malattie psicosomatiche. Invece sono guarigioni di malattie normali attraverso l'autosuggestione.

Il Comitato Medico Internazionale di Lourdes

(tratto dal sito ufficiale di Lourdes)

Il Comitato Medico Internazionale di Lourdes (C.M.I.L.) è formato da dottori e specialisti che prendono in esame le guarigioni spontaneamente dichiarate nel’Ufficio delle Constatazioni Mediche del Santuario di Lourdes. Ne fanno parte una ventina di membri, tutti specialisti nei loro rispettivi ambiti e devono esaminare i dossier dichiarati. Queste dichiarazioni di guarigioni fanno riferimento a un gran ventaglio di malattie, da casi leggeri a quelli gravissimi. I membri del C:M:I:L: motivati da esigenze scientifiche, proprie della loro professione, seguono il principio del dottor Jean Bernard : “ quel che non è scientifico non è etico”. Anche se credenti, tuttavia nei loro dibattiti non mescolano l’interrogativo scienza e fede. I membri del CMIL ricordano in continuazione che usare la parola “miracolo”, non è cosa che competa a loro, ma al Vescovo della diocesi dove risiede il guarito. Sarà quindi da parte della Chiesa che saranno riconosciuti i miracoli.

I membri del Comitato non ignorano nulla del fatto psicosomatico nella genesi come nella guarigione dalle malattie. Essi non rifiutano comunque di prendere in considerazione tale guarigione, per il fatto che includerebbe un fattore psicosomatico tra le sue cause. Essi non ignorano neppure che guarigioni spontanee da tale o tal’altra malattia sono possibili, come lo testifica la letteratura medica internazionale.

 

CONCLUSIONI

I miracoli veri sembrano essere davvero pochi, ma forse è meglio così.

L'uomo dovrebbe vivere la vita così come viene, senza sperare in interventi esterni.

 

Trieste, 2012     adriano balestra

MEMORIA

MEMORIA
1 - CAPACITA' DEL CERVELLO
(Nel senso di spazio disponibile per ricevere e conservare informazioni di ogni tipo)
 Se pensiamo solo al suo peso, cioè 1,5 KG, non riusciamo a capire cosa ci può stare dentro.
Se invece andiamo a vedere (con microscopio elettronico) dove avviene di tutto scopriamo i NEURONI.
Di questi nel cervello ne abbiamo 100.000.000.000 (cento miliardi)
per contarli ad un ritmo di tre secondi ognuno, si impiegherebbero 9.500 anni.
Nota bene che attorno ai neuroni ci sono altre cellule che formano la GLIA.
Finora si era pensato che non avessero funzioni se non di supporto e di riempimento degli spazi fra i neuroni, ma ultimamente è stato scoperto che svolgono delle attività importantissime. Gli scienziati sono ancora lontani dal capire come veramente funzionino. Le cellule della GLIA sono dieci volte più numerose dei neuroni e cioè 1.000 miliardi (per contarle: 95.000 anni).
 2 - INFORMAZIONI AL CERVELLO
Tutto quello che gli organi di senso (vista, udito, olfatto, tatto, gusto) recepiscono sono trasformati in impulsi elettrici e chimici e inviati al cervello. I neuroni si spartiscono le informazioni e le depositano dove solo loro sanno.
La capacità di ritrovare nomi, immagini, musiche, sensazioni, ecc. si chiama MEMORIA.
Ci sono diverse teorie in merito alla durata della memoria: "memoria a breve termine" "memoria a lungo termine" una dura poco o pochissimo, l'altra dura più a lungo.
In pratica se un fatto è accompagnato da un evento traumatico viene ricordato anche se si è verificato a decenni di distanza o addirittura nella prima infanzia.
 3 - TEORIA DEL "TUTTO RESTA DENTRO"
(di Adriano Balestra)
 Premesso lo spazio enorme di cui siamo dotati nel cervello (il numero dei neuroni è stato paragonato al numero dei corpi celesti dell'intero universo), ritengo che non ci siano problemi ad accumulare tutto ciò che vediamo, sentiamo, ecc. nell'intero arco della nostra vita.
Il problema è di ripescare ciò che ci interessa in quel momento. Se non ci riusciamo, non vuol dire che sia stato cancellato. Quante volte non riusciamo a ricordare un nome e magari il giorno dopo ci viene in mente. Non credo che era stato cancellato e che qualcuno lo abbia reinserito nel nostro cervello per farci contenti.
 4 - TEORIA DELLA MEMORIA ONIRICA
(di Adriano Balestra)
I sogni sono elaborazioni dei neuroni che creano delle situazioni, probabilmente pescando in quel grande magazzino che hanno a disposizione.
Se la situazione onirica (vuol dire del sogno) è piacevole la chiamiamo "sogno", se è spiacevole la chiamiamo "incubo".
Io mi sveglio tante volte durante la notte. Nel mio caso non è patologico perché mi sono sempre svegliato diverse volte in una notte, non mi sono mai preoccupato e ho sempre vissuto bene così, fin da bambino, senza pillole o psicologi. La bottiglia d'acqua sul comodino, retaggio di mia mamma che mi aveva abituato al bicchiere d'acqua, e un sorso ad ogni svegliata.
Regolarmente, quando mi sveglio, mi ricordo il sogno che avevo appena fatto.
Qualche notte fa' ho sognato una scena nella quale mi mostravano un grande macchinario e mi avevano detto che era per fare elettricità. Da sveglio me lo sono ricordato e saprei disegnarlo ancora adesso.
Tutto questo preambolo per dire che anche i sogni vengono memorizzati, più difficile ripescarli ma non per questo cancellati.
Chi mi dà del visionario deve farsi un esame di coscienza e dirmi se non gli è mai successo di svegliarsi e ricordarsi l'ultima parte del sogno. Se uno si ricorda qualcosa da sveglio, vuol dire che quel qualcosa abita nel suo cervello, altrimenti, lui sì che ha bisogno dello psicologo.
Trieste, 17 agosto 2012
Adriano Balestra