venerdì 2 novembre 2012

FIGLI D'ARTE O MOWGLI


FIGLI D'ARTE

 

 

Figli d'arte o sindrome di Mowgli?

 

(Adriano Balestra 2012)

 

L'ereditarietà genetica è la trasmissione, da una generazione alle successive, dei caratteri originati dall'assetto genetico. L'avvenire di una specie è legato a due condizioni: il patrimonio ereditario, cioè l'insieme di caratteri e di potenzialità che ogni individuo riceve dai genitori al momento della nascita, e le condizioni ambientali in cui si sviluppa e che nel caso della specie umana assumono anche il carattere di processo educativo. Noi siamo quello che l'ambiente in cui abbiamo vissuto ci ha insegnato.

Non esiste trasmissione genetica di conoscenze, capacità artistiche, musicali, pittoriche, ecc.

I cosiddetti "figli d'arte" non sono altro che individui che dalla nascita convivono con un genitore che dalla mattina alla sera suona, compone musica, dipinge, scolpisce, ecc.

Se prendiamo un neonato, figlio di un genio, e lo affidiamo ad una famiglia di selvaggi del Sudamerica o dell'Africa o dell'Australia, lui sicuramente non diventerà un compositore o un pittore, ma resterà un selvaggio.

L'unica cosa che un genitore genio può trasmettere ereditariamente è una certa elasticità dei neuroni che farà si che il figlio apprenda più facilmente quello che l'ambiente gli insegna.

Ma solo quello che l'ambiente in cui vive gli insegna.

Ci sono oggi centinaia di bambini tolti dal loro ambiente famigliare e inseriti in un ambiente diverso, spesso anche animale.

Il risultato è quello che viene chiamato la "sindrome di Mowgli".

 

Esiste tutta una letteratura documentata su questi che vengono chiamati "ragazzi selvaggi" in inglese "feral childs".

In INTERNET si possono trovare documenti e filmati veramente impressionanti.

Di seguito riporto dei documenti su tale argomento.

 

DOCUMENTI:

 

"Sindrome di Mowgli": il bambino che cinguetta

marzo 2008

Non è la prima volta che si sente parlare di un bambino che in seguito ad alcune circostanze vive a stretto contatto con gli animali sul modello del “Libro della Giungla”, il romanzo di Rudyard Kipling. Dopo il ritrovamento dell'anno scorso della ragazzina cambogiana che viveva nella giungla a stretto contatto con gli animali, e che in seguito a questo tipo di vita non sapeva più comunicare nella propria lingua, è di qualche giorno fa la notizia di un altro ritrovamento.

Ma stavolta non si tratta di un abbandono in una foresta, bensì di un caso “abbandono” perpetrato fra le mura domestiche. In Russia, a Kirovskiy (Volgograd), vive un bambino di sette anni con la madre di 31 anni. Fin qui tutto tranquillo, se non fosse che il bambino non parla come ci si aspetterebbe da un qualsiasi suo coetaneo, bensì cinguetta. Ma non solo: infatti il bambino oltre a esprimersi in cinguettii muove anche le braccia mimando lo sbattere delle ali. 

Del caso si è occupata un'assistente sociale, che in un'intervista al quotidiano Pravda ha dichiarato che la madre gli dava solo da mangiare, ma non gli parlava. Nella casa in cui abitavano c'erano diverse gabbie piene di uccellini, per cui di conseguenza il bambino ha imparato ad esprimersi nell'unica “lingua” che sentiva “parlare” in casa, ovvero il cinguettio. Il bimbo ora si trova in un istituto in attesa di essere trasferito in un centro di cura. Alla madre ovviamente è stata tolta la tutela del figlio.
 
In Siberia una bambina di 5 anni cresciuta da cani e gatti
maggio 2009
 
La polizia russa ha preso in cura una bambina di 5 anni, rinchiusa in un appartamento in compagnia di cani e gatti per tutta la sua vita.
La bambina, che ha vissuto a Chita in Siberia orientale, non sapeva parlare russo e ha agito comportandosi come un cane quando la polizia l’ha trovata. “Per cinque anni, la bambina è stata “allevata” da molti cani e gatti e non ha mai varcato la porta di casa” lo ha dichiarato l'ufficio stampa della polizia. “La bambina era vestita in abiti sporchi, possedeva chiari attributi di un animale ed ha assaltato gli agenti appena li ha visti. L’appartamento era privo di riscaldamento, d’acqua e fognature”.
Un portavoce della polizia ha detto che “la bambina, conosciuta come Natasha, è stata monitorata da psicologi in un orfanotrofio. Sua madre è stata interrogata, e il padre della bambina non è stato ancora trovato. La bambina dà l’impressione di avere soltanto 2 anni, si rifiuta di mangiare con un cucchiaio e ha assunto molti dei gesti degli animali con i quali ha vissuto. Quando gli assistenti lasciano la stanza, la bimba salta alla porta e abbaia.

 Ragazzi selvaggi e antropoidi parlanti
Tratto da Diogene N° 17

Bambini allevati dagli animali e animali allevati dagli uomini: qual è la differenza? Possiamo abbandonare l'arroganza con cui ci attribuiamo la supremazia su tutti i viventi per fare invece una filosofia del moscerino e del bambino?

 

  
 
 

I ragazzi selvaggi sono quei bambini che riemergono, in genere, dal fondo della giungla (più recentemente anche da quella urbana) dove sono sopravvissuti completamente isolati grazie alle loro proprie forze o perché accuditi da animali. Il lungo elenco dei ragazzi selvaggi, dai primi “bambini-lupo” del 1300 ai “bambini-cane” della fine del secolo scorso, è stato ripreso da Anna Ludovico in "Anima e Corpo" e, ancora una volta, essi vengono indagati come esperimento naturale per “dimostrare che l’apprendimento di una lingua e di un comportamento emotivo adeguato da parte di un bambino siano il prodotto di una lunga serie di operazioni mentali che, a loro volta, sono rese possibili unicamente da una socializzazione sviluppata in ambiente tipicamente umano”, ovvero, per neutralizzare, tramite la negazione implicita di “una lingua e di un comportamento emotivo” animali, l’impatto dirompente che i ragazzi selvaggi eserciterebbero sull’antitesi uomo/animale.
Un esempio illuminante al proposito è fornito dal confronto della sorte dei “ragazzi selvaggi” sopravvissuti in isolamento rispetto a quella di coloro che sono stati allevati da animali.
Se a prima vista saremmo, infatti, propensi a pensare che siano questi ultimi ad avere maggiori speranze di sopravvivenza, avendo ricevuto cure parentali e partecipato alla vita sociale di una comunità, non tardiamo a venire informati che, invece, vale esattamente l’opposto: “I fanciulli cresciuti con gli animali hanno modellato su questi le loro risposte ambientali”.
Di qui la maggiore difficoltà incontrata da questi ragazzi nel trasformare la struttura del modello sociobiologico che si è dimostrata indispensabile alla loro sopravvivenza. Ne consegue che, dopo il loro ritrovamento, i bambini allevati dagli animali selvatici hanno vita breve, al contrario degli altri.

Vita breve
“Vita breve” significa non tanto una ridotta aspettativa di vita, quanto piuttosto una minore possibilità di ridiventare umani, riacquistando il linguaggio (il nostro, ovviamente), in una parola di venire “rieducati” all’umano, che poi è stato da sempre lo scopo principale di tutti i filantropi, medici o meno, che, a partire da Itard, si sono presi cura dei ragazzi selvaggi dopo il loro ritrovamento.
Non vi è dubbio infatti che per costoro i ragazzi selvaggi sono “regrediti” al livello animale, anzi sono animali tout court. E che questo sia vero è dimostrato nei fatti dalle modalità con le quali i ragazzi selvaggi vengono persi e poi ritrovati.
Generalmente, questi individui perdono i contatti con la comunità umana nel corso di guerre e rastrellamenti, cioè in tutta una serie di eventi che rappresentano le manifestazioni più eclatanti della società gerarchica e repressiva, dove il nemico può essere trattato alla stregua degli animali e dove chi è collocato sui gradini più bassi della scala degli esseri viventi può essere lasciato indietro come un animale.
E quando vengono ritrovati, vengono letteralmente catturati, cioè ripresi con metodi in tutto e per tutto assimilabili a quelli delle pratiche venatorie.
E, se non fosse tragico, dovrebbe suscitare ilarità il fatto che chi ha catturato questi ragazzi selvaggi provi stupore per il fatto che essi non intendono affatto farsi riprendere e di conseguenza mettono in atto meccanismi di fuga, che vengono interpretati non come un segno della loro riuscita integrazione nella società “ospite”, ma come indice del livello di “disumanità” raggiunta.
Se fossimo in grado di avvicinare i ragazzi selvaggi con garbo, ponendo loro le domande giuste e senza negarne la capacità di rispondere, potremmo rendere visibile l’opera della “macchina antropologica”, primo passo per disinnescarne l’hybris discriminatoria: la “macchina antropologica”, infatti, funziona al massimo grado solo se lavora sullo sfondo che, in quanto tale, è invisibile proprio perché costantemente davanti ai nostri occhi.

Adottati dall’animale

Se avvicinati così, i ragazzi selvaggi allevati dagli animali risponderebbero mostrandoci con quanto successo abbiano assunto caratteristiche mentali e atteggiamenti corporei simili, se non identici, a quelli della specie d’adozione. In effetti appare evidente, riesaminando criticamente la letteratura sui ragazzi selvaggi, che questi, al momento del ritrovamento, sono ben inseriti nella comunità animale da cui sono stati adottati.
Questo significa che non solo hanno appreso dagli animali i metodi della sopravvivenza materiale, ma anche le regole sociali di quella comunità, una cultura e un “galateo”, in una parola sono stati istruiti ed educati (da cui nasce poi il bisogno di rieducarli).
Esiste, cioè, una tale continuità nel mondo animale che la barriera di specie non è in grado di impedire lo sviluppo di processi di apprendimento socioculturale.
Continuità mostrata chiaramente dalla scoperta dei cosiddetti neuroni specchio, neuroni che hanno la peculiarità di attivarsi sia quando si compie un’azione, sia quando si osserva un’azione compiuta da un altro.
Tali neuroni, comuni all’uomo e (almeno) alle scimmie, sembrano essere coinvolti nella comprensione dell’azione e dell’intenzione di questa, nell’imitazione, e, infine, nello sviluppo del linguaggio e dell’empatia.
I neuroni specchio permetterebbero cioè di creare una copia motoria della percezione visiva dell’azione altrui, permettendo così a soggetti interagenti di costruire una rappresentazione comune delle azioni proprie e di quelle degli altri, rappresentazione che è alla base dell’interazione sociale.
Dietro al linguaggio e all’apprendimento, che non ci separano dagli altri animali ma che ce li rendono ancora più prossimi, si nasconde quindi una “simulazione incarnata”, che rende linguaggio e apprendimento aspetti meno spirituali di quanto abbiamo sempre creduto, qualcosa di più gestuale e di più corporeo. Il che, da un lato, potrebbe stare alla base dell’apprendimento socioculturale e, dall’altro, minare definitivamente il ruolo del linguaggio come discrimine tra il mondo umano e quello animale.

Animali quasi umani
Se l’uomo, una volta inserito in una qualunque comunità animale (di lupi, gazzelle, orsi, cani), è in grado di apprenderne appieno il “galateo”, lo stesso accade (e anche questo è così evidente che non dovrebbe necessitare di essere ribadito se non fosse stato relegato a priori nella dimensione dello sfondo) per quegli animali che si sono trovati a essere inseriti in un contesto fortemente antropizzato.
Si pensi qui a quanto accaduto ai corpi e alle menti degli animali domestici, siano essi pet o “animali da reddito”, a partire da cani e gatti che abitano le nostre case, passando per le mucche e i maiali rinchiusi nei nostri allevamenti, per arrivare ai topi e ai ratti manipolati fin nel profondo del subcellulare e generati appositamente per la sperimentazione scientifica.
Questi animali sono quegli stessi “ibridi” che il nostro antropocentrismo vorrebbe negare ma che esso stesso genera in una mossa che è apparentemente paradossale, ma che in realtà costituisce il cuore di un’operazione fintamente dialettica, di un’operazione, cioè, che crea l’ibrido per poterlo negare grazie al suo sfruttamento e per il suo sfruttamento, per utilizzarlo come mezzo per quell’unico fine che è l’uomo. Questi animali “quasi umani” che per un istante (quello che precede la loro utilizzazione, il loro consumo) occupano la zona grigia di confine tra i due mondi, quello della natura e quello della cultura (o del corpo e dell’anima, o dell’istinto e della ragione, ecc.), precedono ontologicamente e temporalmente gli odierni esperimenti di ingegneria genetica, ne costituiscono
lo sfondo su cui questa ha potuto fondarsi. Se allora prendiamo atto della bi-direzionalità dell’apprendimento socioculturale transpecifico, dobbiamo anche prendere atto che la definizione dell’umano come “animale carente”/proposta da Arnold Gehlen è applicabile all’intero regno animale (o almeno a gran parte di questo).
L’animale che è sempre stato costruito dalla nostra tradizione a partire da una mancanza di linguaggio, di razionalità, dell’anima immortale, della capacità di usare strumenti,  è allora, dialetticamente e come l’uomo, “mancanza in positivo”.

Plasmabilità della specie
Un esempio di quella mancanza animale che rende possibile la plasticità culturale dei comportamenti è offerto dall’analisi delle scelte alimentari dei ragazzi selvaggi: mentre quelli allevati dagli animali assumono in genere la dieta della specie di accoglienza, i ragazzi selvaggi cresciuti in isolamento, al momento del ritrovamento, sono per la maggior parte vegetariani.
Anche questa osservazione non ha nulla di sorprendente una volta accettata l’evidenza scientifica che la nostra specie è “naturalmente” equipaggiata ad essere vegetariana. “Naturalmente” vegetariana non significa necessariamente vegetariana, visto che la dieta è fenomeno eminentemente culturale e quindi influenzabile socialmente.
Ecco allora che i ragazzi selvaggi possono insegnarci qualcosa su quello che noi stessi siamo: come essi vengono educati a una dieta carnea da animali non vegetariani, così lo siamo noi dalla potente industria agrochimica.
In altre parole, la vulnerabilità della mancanza tipica di tutto (o quasi) il mondo animale, mancanza che lo rende tale, cioè plasticamente adattabile al variare del suo mondo, può essere trasformata dall’industria culturale mass-mediatica (della quale quelle della carne e del farmaco sono solo una parte) in meccanismo produttivo, in lavoro tramite rieducazione.
Rieducazione all’invulnerabilità, cioè all’assenza del corpo animale, che trasforma l’uomo da “animale carente” in animale deprivato e, quindi, nelle parole profetiche di Rousseau (Sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini, 1755), in “animale depravato”, cioè profondamente e irrimediabilmente asociale, solipsistico, egoista e, direbbe Günther Anders, consumatore (ovvero “deprivato del sentimento di essere deprivato”).
E non dimentichiamoci che il modello di consumo “nell’epoca della terza rivoluzione industriale” è proprio quello del mangiare, cioè di quel consumare che rende “il più piccolo possibile l’intervallo che si estende tra la produzione e la liquidazione del prodotto”.

Esperimenti
Si è parlato sin qui di chi arriva ad abitare lo spazio proibito tra l’uomo e l’animale partendo dal lato umano, ma considerazioni analoghe valgono anche per quegli individui che giungono in questa “terra di nessuno” dal lato animale, cioè di tutti quegli animali che sono stati costretti a imparare il nostro linguaggio.
Le scimmie antropomorfe “parlanti”, di fatto, altro non sono che l’immagine speculare dei ragazzi selvaggi: anch’esse sono prelevate violentemente dal loro ambiente naturale, dai loro rapporti affettivi e sociali per essere rieducate nell’ambiente asettico di un laboratorio con lo scopo (neanche tanto celato) di sottolineare che, nonostante siano in grado di apprendere il nostro linguaggio, sono comunque a noi incommensurabili perché solo pochi individui hanno mostrato capacità di apprendimento ritenute adeguate, o perché manca loro una qualche oscura e complessa abilità linguistica o, infine, perché individui privi di autocoscienza. E l’elenco potrebbe continuare all’infinito.

La macchina antropologica
Detto altrimenti, la “macchina antropologica” era già all’opera prima che questi esperimenti venissero pensati o, meglio, è il funzionamento invisibile della “macchina antropologica” che li ha resi possibili. Nelle parole di Anna Ludovico: “La consapevolezza scientifica sulla natura del pensiero può concludersi nella definizione della coscienza come pensiero verbalizzato e pertanto specificamente umano, anche quando venga espresso da un antropoide”.
Paradossalmente, quindi, tutti gli esperimenti linguistici sui primati non umani non hanno portato a ridurre la distanza tra “loro” e “noi”, ma sono stati disegnati con lo scopo specifico di approfondirla, se non altro per il fatto che questi esperimenti, pur meno cruenti di altri, comportano comunque una violenza inaudita sugli individui che sono costretti a parteciparvi.
Violenza inaudita di cui si fa testimone la scimpanzè Washoe, che separata dal suo mondo e rieducata al linguaggio umano dai coniugi Gardner e da Roger Fouts, nel momento in cui incontra per la prima volta dei suoi consimili (in una gabbia), li definisce “insetto nero”, mostrando così di aver perfettamente appreso l’arroganza umana, il “fondo inalienabile dell’antropologia occidentale”, il cui meccanismo principale risiede nella svalutazione dell’Altro in quanto animale.

I limiti dell’antropologia
Ragazzi selvaggi e antropoidi parlanti sono individui violentati dal processo “rieducativo”, che li trasforma in fenomeni da baraccone o, che è lo stesso, in oggetti per (glorificare) il nostro pensiero. In entrambi i casi vengono negati e disconosciuti e la loro carica eversiva depotenziata per mantenere aperto lo iato che consente di considerare “sacra” la sola vita umana a discapito di chi, umano e non, viene assegnato alla categoria dei lebensunwert [viventi senza valore].
Ripensare i ragazzi selvaggi alla luce di queste considerazioni può allora forse rivelarsi un utile esercizio per iniziare a pensare con serietà a “una filosofia del moscerino e del bambino”, a trasformare i limiti dell’antropologia filosofica in confini permeabili e quindi a renderla un discorso intorno all’uomo e non un ennesimo discorso dell’uomo.

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